AMENDOLA

    Dicono che la debolezza dell'Aventino consista nella mancanza di un capo. Sarebbe la ragione del successo del fascismo. Conosciamo molti oppositori perpetuamente alla ricerca dell'Anti-Mussolini, che l'hanno ritrovato ora in Albertini, ora in Amendola, ora in Sforza, ora in Turati. Delusi poi che in questi non vi fosse alcuna qualità mussoliniana (la petizione di principio era nell'idea di capo che si erano formata e nell'esempio nascosto nella loro fantasia!), si crearono altri idoli: Badoglio, Giardino, Capello.

    In realtà se l'Aventino avesse un capo non sarebbe più l'Aventino. La sua forza e la sua debolezza sono qui: nel non aver bisogno di un duce. Non si tratta di manovre, di strategia, di astuzie. La situazione è assolutamente statica. Il problema è di dare degli esempi morali. L'isolamento dell'Aventino è questo: che milioni di italiani hanno creduto che l'Aventino servisse per provocare una crisi ministeriale. Questo consenso alle opposizioni era di natura mussoliniana: su tali oppositori non si può contare, essi sono passati e passeranno al nemico nel primo momento difficile.

    Gli italiani sono in maggioranza fascisti o oppositori? La domanda è mal posta. Gli italiani possono fare della fronda oppositrice senza essere oppositori. La maggioranza degli italiani è fascista solo in questo senso: che ha un'assoluta incompatibilità di carattere coi partiti moderni, coi regimi di autonomia democratica con la lotta politica. Messi al bivio tra il governo attuale e un ipotesi di governo futuro in cui i cittadini abbiano le loro responsabilità nella libera lotta politica, votano per Mussolini. L'Aventino è il processo Dreyfus degli italiani.

    A Donati, ad Albertini, ad Amendola, a Sforza non si può chiedere più di essere dei tattici consumati. Essi hanno solo il dovere di chiarire sino all'esasperazione questa incompatibilità morale.





    Se avevano delle doti parlamentari, se potevano riuscire degli eccellenti ministri, essi hanno sacrificato queste prospettive e queste qualità per essere i primi cittadini di uno Stato italiano moderno senza sagre e senza sanfedismo.

    I malumori contro Amendola, che sarebbe lo stratega troppo rigido di una battaglia perduta, sono recriminazioni meschine. Bisogna fare l'elogio di Amendola. Entrato nella politica militante nel 1919, era salito in due anni ai primi posti: si guardava a lui come a un sicuro presidente, del Consiglio. Nessuna delle piccole qualità del parlamentare gli mancava: alla sua rigida volontà soccorrevano la pratica e il temperamento del meridionale. Tutti sanno quali lusinghe gli venissero nel '22 e nel '23 dal campo fascista.

    Perciò la sua protesta ha un valore rappresentativo. La sua rinuncia è perfettamente meditata e calcolata. Lavorare a vent'anni di scadenza non è difficile per noi: nel caso di Amendola vuol dire che una crisi storica di grande importanza si è manifestata, e che l'uomo non è rimasto inferiore al suo compito.

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    Giovanni Amendola deve continuare oggi nella vita politica italiana la stessa posizione polemica e costruttiva che si assunse prima della guerra nel mondo della cultura.

    Nell'Anima (1911), rivista di filosofia, Amendola e Papini, direttori, muovevano da una constatazione pessimistica: non esservi nell'Italia d'oggi una idea, una voce, una vita che ci soddisfino, che noi possiamo accettare per nostre.

    "Ci siamo guardati intorno per scoprire gli altri: ma l'Italia è ancora il paese del Caro e del Castelvetro, o meglio dei loro pronipoti in sedicesimo. Molti lustri dovranno scorrere, prima che questa gente, la quale ha per secoli imbrattato la carta di sonetti e di canzoni, abbia perduto il gusto di teorizzare e di questionare su versi e su rime: prima che la nuvolaglia letteraria si diradi sulle nostre teste e lasci vedere nel cielo della vita oggetti più puri e più elevati a cui tendere".





    Così Giovanni Amendola, che doveva esser poi così insorabilmente politico e fanatico di realismo, cominciava proprio con la più sconcertante esperienza romantica. In tempo di crisi, di agitazione e di sovvertimenti ideali si trovava costretto, per la semplicità stessa del suo candido desiderio di costruire su basi solide e sperimentate, a preparare gli strumenti più elementari di conoscenza e a prender confidenza col mondo, addirittura attraverso un sistema filosofico che ne svelasse i segreti.

    In un politico di istinto il sistema filosofico non poteva essere che il sistema della vita morale, come tragedia di individui; l'etica ridotta a biografia, in quanto la biografia fosse appunto la storia dei tormenti per la conquista della personalità. In tutto questo noviziato il filosofo politico ci lascia pensare a quelle figure magiche di stregoni, che fanno i loro esperimenti sulla nuda carne quando addirittura non cerchino le idee attraverso le consolazioni dell'occultismo e della teosofia. Amendola vuol penetrare nell'essenza dei problemi volitivi, scoprire la coscienza morale, coglierne il ritmo di sviluppo, veder sorgere la volontà della lotta contro gli istinti e contro il sentimento. La filosofia di Amendola era più un dramma che una speculazione. Egli ha dovuto indugiare negli esempi, disegnare le figure, rivivere le biografie: Michelangelo, Michelstaedter, Tasso. Ma la psicologia di Amendola è già un'arte politica, e sorprende gli individui mentre si sforzano di realizzarsi nella comunicazione sociale. Guardate come sente in Lutero l'epopea dell'affermazione nel condottiero dalle masse. "Lutero è il genuino rappresentante di un popolo giovane ed esuberante; egli comunica abbondantemente con la vasta anima delle masse e trae da questo contatto una sempre rinnovata conferma alle sue affermazioni e alle sue ribellioni; la sua coscienza germanica si pronuncia chiara, netta e invidiata sui problemi sostanziali della religione e della vita". Si può capire come ai suoi elettori di Salerno, il direttore dell'Anima potesse chiedere, dieci anni dopo in termini politici una conferma solenne delle sue audacie filosofiche.





    I rapporti tra quest'uomo e il movimento vociano dovettero sempre rimanere necessariamente generici, poiché nell'elegante Sturn und Drang fiorentino egli recava preoccupazioni disperatamente monotone e pratiche. Invece l'amicizia con Papini fu un punto fermo, una constatazione di coincidenze, di vicinanza di attitudini, di una certa somiglianza di temperamento morale. La collaborazione di questi due uomini, che il pubblico italiano oggi si sdegnerebbe di vedere accomunati, fu una necessità e un esempio storico singolarmente chiarificatore. È una amicizia degna di essere meditata almeno quanto quella di Machiavelli e Ariosto. Siamo in pieno dramma antidannunziano e la lotta è mossa in nome di una persistente passione individualistica che ha le nostalgie antiromaniche della cattolica umanità. Nell'Uomo finito e in Etica e Biografia c'è la stessa esigenza di realizzare con mezzi esclusivamente e rigorosamente etici una compiuta personalità.

    L'atteggiamento di Amendola di fronte al fascismo non è dunque che un aspetto e una conclusione del suo antidannunzianesimo. La intransigenza si riduce a una questione di dignità, quasi un caratteristico residuo pedagogico persistente nella sua passione politica. I difetti e i pregi dell'uomo son tutti in questa sua attitudine di dialettico che vuol convincere l'avversario, nemico dell'improvvisazione, ostinatamente coerente. Perciò se prima si poteva dire che nel filosofo c'era il politico, adesso nel politico continua il filosofo. Ma questa cultura gli ha data la libertà, lo ha lasciato senza illusioni metafisiche alla sua intransigenza, sicché persino i suoi calcoli hanno un sapore di azione diretta come se dell'intellettualismo non ci fosse più che il ricordo.





    Bastano queste brevi note per caratterizzare un ritratto che appare direttamente antitetico alla figura di Mussolini. Sarebbe difficile trovare Amendola indulgente verso le espansioni popolari e verso la politica del facile entusiasmo. La sua serietà è talvolta persino un'ossessione e gli vieta tutte le più prudenti sospensioni ironiche. Ma neppure si potrebbe paragonarlo al tipo comune del politico italiano: gli manca l'amabile disinteresse del diplomatico, come il cinismo di Giolitti. In sostanza poi niente ideologie, niente protestantismi: può credere a valori precisi di libertà e di morale, ma piuttosto in quanto gli servano per acquistare il senso del valore degli uomini dei quali vuole conoscere le attitudini per usarne.

    Nella contemperanza di queste doti c'è ancora la cristiana umanità della sua filosofia, ma corazzata con la chiarezza dogmatica e intollerante e gli schemi precisi del cattolico.

    Già, avvicinandolo, la sua figura fisica ti dà l'impressione e la sicurezza della solidità: e le sue qualità intellettuali sono così dominanti e meridionalmente appariscenti che sembra più giusto riferirle al carattere che alla maturazione del pensiero.

    Si capisce benissimo come Mussolini, che ha le penetrazioni e le lucidità psicologiche dell'uomo fatale, abbia subito riconosciuto nella decisione austera e chiusa di Amendola il solo candidato serio alla successione. Una successione ideale che implica un'antitesi totale, una lotta di razze. E Amendola è così chiaramente se stesso, con le sue ambizioni e con le sue misure, che non ha bisogno di nascondersi dietro un programma o dietro una costruzione di ragionamenti. Se dovessimo riferirlo ad altri orizzonti spirituali ormai storici, potremmo riconoscere in lui piuttosto la sicurezza e la rassegnazione di Metternich che l'improvvisata e profetica genialità di Cavour o di Bismark. Ossia io vedo in Amendola piuttosto l'uomo di una situazione che il capo di un partito più la prudenza sagace e le inesorabili attitudini costruttrici dell'amministratore, che lo sforzo strategico del condottiero. Non per nulla Amendola è negato alla comunicazione con le masse: nulla di tribunizio si trova nei suoi discorsi elettorali e quando in casi siffatti i programmi devono necessariamente colorirsi secondo le astuzie oratorie, egli si ferma per istinto di lealtà a idee affatto generiche.





    Tutti questi limiti sono caratteristici e necessari in Italia per un uomo che voleva rimanere un politico e non diventare un avventuriero, né speculare sulle consolazioni estetiche nelle nuove generazioni dannunziane e del popolo desideroso di sagre. Considerando l'uomo nel suo terreno storico sarebbe ingiusto rimproverargli la semplicità ancora elementare della sua fede democratica che si accontenta di una definizione e non può tener conto delle grandi esperienze moderne, dei progressi industriali, dei partiti e della lotta politica e delle democrazie intransigenti e calviniste, perché queste idee diventano utopie in Italia, paese povero, in cui i cittadini tormentati intorno alle esigenze economiche più elementari non possono ancora raggiungere la loro dignità di combattenti.

    Così sotto la dottrina rimane in Amendola il provinciale napoletano, che a contatto con le correnti europee si trova a disagio e deve procedere per approssimazioni, indugiando in un compito di pedagogo verso la sua gente. Il suo istinto resta assolutamente conservatore e per quest'aspetto egli rientra nella tradizione di tutti i politici italiani dopo Cavour. Più sobrio perché meno indulgente alla demagogia, ma d'altra parte negato a quelle sottigliezze di stile che vengono soltanto da una esperienza diplomatica.

    Invece di usare duttilità e mobilità egli ha fatto una questione di fedeltà alle premesse, ed ha portato nella battaglia l'austerità e la rigidità di un vescovo scismatico. Ecco in qual senso l'Aventino ha trovato in lui il suo uomo.

    Il più bell'elogio per Amendola noi lo diremo insistendo sulla sua impopolarità; e la sua forza è proprio nella costanza della sua solitudine.

p. g.