Breve storia del "Partito Liberale Italiano"

I.

L'organizzazione

    Quelle organizzazioni politiche che nell'ottobre 1922 si dettero convegno a Bologna per unirsi e fondare il "Partito liberale italiano", traevano la loro ragione di vita dalle necessità imposte dal sistema elettorale della proporzionale. Infatti, cos'erano, in origine e sino al 1920 e 1921, altro che tante pianticelle prosperanti nel vago tepore di serra del Collegio uninominale? Venne nel '19 la legge infausta, e, con la legge, la folata dei voti socialisti e popolari, che portò, vento in poppa, nel porto montecitoriale le grosse navi colme di falci e martelli e scudi bianco-crociati. Allora i vecchi padroni di quel porto degli incanti, capirono che il mare non si naviga più, altro che per diletto, con i remi e le vele, ed anch'essi pensarono a mutare mezzi e sistemi. Ma in quale modo? Le associazioni patriottiche, i circoli democratici, i "club" liberali, monarchici, costituzionali, progressisti e via, tutte, insomma quelle "riunioni" locali in cui si accoglievano i grandi elettori e i piccoli entusiasti galoppini, allargarono la sfera della loro azione, o si riunirono in concordia più o meno amorevole, e costituirono le organizzazioni provinciali.

    In alcune provincie il lavoro diede risultati considerevoli ed, ivi, le associazioni assunsero dignità ed autorevolezza intrinseca quasi di partito, più che non di comitato elettorale. La provincia di Torino ebbe l'Associazione liberale-democratica, sorta dalla fusione dei tre gruppi politici, che nelle elezioni del '19 (essenzialmente due: il giolittiano e l'interventista) si erano picchiati sodo con furore ed accanimento veramente adeguato alla causa che li divideva. Il terzo gruppo era quello del "partito economico" e cioè, in effetti, del Sindacato dell'industria, facente capo alla "Promotrice industriale". Tre anime in un corpo, ricche di risentimenti e di sospetti cordialmente reciproci, ma salde a lottare, e con fortuna, il pericolo rosso ed anche il bianco, però con intendimenti così diversi da costituire una gradazione variopinta.





    Ebbe la sua "Unione Costituzionale" Novara. Primo uomo, l'on. Rossini, poi gli onorevoli Gray, Alice e Falcioni: cioè, un combattente, un nazionalista, un agrario, un nittiano (ex-giolittiano), i quali alla Camera, forse, ma per puro caso, votarono talvolta concordemente.

     Cuneo ci diede, riservato, diffidente verso il costituendo partito liberale, il suo "partito democratico". Che il comitato elettorale di Giovanni Giolitti e satelliti avesse innalzato la pomposa insegna di partito, era, ben si intende, atto logicamente intonato alla potenza dell'insigne uomo.

     Milano andò a Bologna bastantemente scissa in più circoli; Bergamo, unita, con alla testa l'on. Bortolo Belotti, forte come il suo capitano Bartolomeo Colleoni. E incontro a lui scenderà in campo la schiera fascistico-liberale toscana, guidata dallo spietato ed impavido onorevole Sarrocchi.

    Non immemore delle sue glorie la Liguria darà il gr. uff. Borzino con il suo forziere generoso.

    Per gli onori di casa Bologna non poté invero mobilitare molta milizia, ma con tre forti campioni mosse ad incontrare i congressisti: un poeta, un economista ed un precursore, il professore Lipparini, il prof. Giovannini e Giovanni Borelli, orazi felsinei.

    Ma, per dire il vero, pochini dei deputati interessati vedevano di buon occhio il lavorìo per la costituzione del partito e, quindi, il Congresso. Molti avrebbero preferito rimanere nel chiuso orticello di provincia, entro il quale si può tacere o parlare, quasi sempre, in libertà, come si vuole, ai cavoli ed alle rape, senza sollevare le noiose questioni delle direttive, della disciplina, di partito et similia.





Il Congresso di Bologna

    Bologna, la rosso-comunista del 1920, la nero-fascista del '921, divenne per un giorno, giallo-liberale. Sfilarono per le vie della città le camicie kaki del novello squadrismo costituzionale. Chi volle il miracolo? I professori Giovannini e Lipparini giubilante, ché, con simile giostra, credettero di assicurarsi la gloria di organizzatori presso i cari amici increduli del Paviglione. A cornice ed a sfondo di tutto il congresso, stanno il mimetismo squadristico, col relativo giuramento, consegna di gagliardetto, madrina, parata, galloni e discorsi marziali, ed, in primo piano, i deputati salandrini, intenti alla montatura ministeriale di Antonio Salandra.

    Cade così, dal bel principio, il disegno, tanto sinceramente, quanto ingenuamente vagheggiato dai migliori organizzatori, perché il Congresso piomba a capofitto dentro al pantano delle divisioni parlamentari, dal quale, essi credevano, poterlo tenere lontano. I deputati salandrini (gruppo parlamentare liberale-democratico) con le rappresentanze delle loro sparute organizzazioni elettorali, la cui influenza nelle loro regioni è ridotta al lumicino, insomma, la destra storica, il liberalismo puro, come essi dicono, è la vera sostanza reagente del Congresso.

    Lanciano costoro gli "eja" "eja" al nome di Salandra, tendono le braccia supplici, nell'angoscia dell'ultima speranza al nazional-fascismo ed urlano raca a tutto il resto, con atteggiamenti e discorsi che, sia detto senza gusto di ironia, avrebbero invero meritato, per la maggior parte, anziché le pompose assise del sedicente liberalismo, l'ambiente piazzaiolo di un comizietto pubblico di provincia. L'on. Fazio, tutto solo, a sinistra, si terrà in braccio, con in tasca la delega dei suoi dodicimila voti, la "democrazia", ben si intende, giolittiana, che la nittiana non si fa manco vedere. E tra questo e quelli, tutte le gamme liberal-democratiche, il centrismo. La destra, con l'adesione di una porzione del centro, vuole denominare il partito "liberale italiano"; invece l'on. Fazio ed i rimanenti centristi non vogliono saperne ed aspirano all'unione del "liberale" con l'aggettivo "democratico". Inde irae.





L'Ing. Corrado Gay

    Ma qual'era la concezione organizzativa e politica del capo del centrismo, il presidente dell'Associazione provinciale torinese, il grand'ufficiale ing. Corrado Gay, firmatario, con il dott. Mascagni, grossetano, sarrocchista, del proemio-programmatico, la magna charta del costituendo partito, compilata dal prof. Giovannini? L'ing. Corrado Gay, organizzatore di ottima ed attiva volontà, pronto ai sacrifici più duri per il partito cui si è votato, aveva fatta sua, in ciò sorretto, é doveroso riconoscerlo, dall'approvazione di uomini a lui superiori per dottrina e talento, una vecchia idea fissa di Sidney Sonnino. Ricordate? "Vorrei che la mia voce potesse chiamare a raccolta tutti gli uomini di buona volontà liberali e conservatori ad un tempo - ciò nel '97, Gay nel '22 dirà democratici e liberali - perché si organizzasse un grande partito, che, per combattere efficacemente il socialismo ed il clericalismo, si proponga un programma..., ecc.". E, ad anima persa, s'era posto a fare le addizioni, le quali, però, in politica non riescono così facili come in aritmetica; e ciò che, in particolari condizioni e nei ristretti limiti elettorali d'una provincia, può riuscire possibile ed utile, non è a dire che sia da generalizzarsi del campo più vasto e complesso della Nazione.





    Quanto al programma l'ing. Gay, politico pratico, badava bene a non impelegarsi nelle acque turbinose e fredde delle rigidezze teoriche. Il modesto tracciato del proemio-programmatico, con il suo bravo decalogo, offriva la comoda possibilità di molteplici frange a colorazioni diverse. Da buon sindaco rurale, di mentalità piccolo-borghese, pareagli possibilissimo, sulla base negativa di un fronte unico difensivo contro il socialismo ed il popolarismo, dar vita ad un partito dalle braccia ampie quanto la misericordia divina, senza avversione ed intransigenze invincibili, non alieno, cioè, dalle pacifiche intese contrattuali; una politica, che è poi in gran parte quella che costuma in Italia; un partito, semplice addizione di nominativi, senza unità morale, specie di legione promiscua, in cui la disciplina delle convenienze per militi, che hanno fatto la firma, tien luogo dell'intima fede comune, che è la forza verace dei partiti, i quali vogliano non solo difendere ciò che ritengono ne valga la pena, ma che intendano influire profondamente oltrechè nel presente, nel prossimo futuro e nel più lontano avvenire. Benché accorto, dotato di olfatto, non gli era, tuttavia, riuscito di scongiurare, né la coreografia squadristica, per lui, amico del Presidente del Consiglio Facta, fra i benpensanti, particolarmente ostica, né lo scatenamento delle tendenze. Giolittiano, forse senza saperlo, incline ad una vaga idea democratica campagnola, se non riuscì, e non tentò nemmeno, colto alla sprovvista, di dar battaglia sui principii, spiegando un indirizzo politico, si attenne ad argomentazioni del tutto secondarie; non attaccò, né difese, negò il giolittismo della sua organizzazione, lamentò il processo mosso alla democrazia, e, prendendo ardimento dall'ossequio che il Congresso gli addimostrava, per essere, egli, il capo dell'Associazione più forte e non priva di lauri, invocò, fra gli applausi platonici, l'unione sur "una base d'intesa, se non in linea programmatica assoluta, almeno su determinati punti che al Congresso sembrassero più importanti e di maggiore attualità ed urgenza".

    Naturalmente, sarebbe stato necessario, con mossa rapida, indicarli questi punti, abilmente trasceglierli, incatenare su di essi l'attenzione dei convenuti; ma di ciò ben se ne può comprendere il perché, non fece nulla.





L'On. Bortolo Belotti

    Chi tentò penetrare nella sostanza viva del problema, esponendo, sia pur di scorcio, la sua concezione centrista, fu l'on. Belotti, al quale toccò la sorte, a consolazione delle urlate, dei migliori oratori in codesto genere di assemblee, d'offrire, cioè, alla pochezza dei minori, amici od avversari, la terminologia, le citazioni, i leit-motiv, che da quelli vengono poi rimasticati sino alla nausea: "Le direttive del fascismo sono una parafrasi di quelli che sono stati costantemente i capisaldi del nostro programma. Contro il concetto socialista antiliberale della lotta di classe noi abbiamo contrapposto la collaborazione di tutte le classi. Dopo il '76, caduta la destra storica, nuovo e formidabile problema s'era presentato: quello del lavoro, non sconosciuto a Cavour ed a Minghetti. Dobbiamo nel programma e nell'azione introdurre la interpretazione democratica dell'idea liberale, che deve però arrestarsi là dove scorgasi la demagogia. Nel '19, contro i demagoghi, che abbiamo visto uscire dai circoli socialisti e dalle congreghe clericali, gli unici che tennero testa siamo stati noi. Abbiamo organizzato, specialmente nell'Italia settentrionale tutti i nostri amici sulla piattaforma di un'intesa liberale-democratica; non possiamo scomporre questa unità che ci è costata fatica".

    Sarebbe stato evidentemente necessario, che l'on. Belotti spiegasse in che dovesse consistere la democratizzazione liberale, stabilendone, a chiari segni, i confini inviolabili con la demagogia. Dire: "Noi contrastiamo all'aspirazione di una parte del socialismo di collaborare con noi" e bollare di demagogica l'attività del P.P.I., era perfettamente logico da parte dell'onorevole Belotti, ex-ministro del gabinetto di coalizione social-liberal-democratico e popolare di Bonomi?





Liberali puri

    Ma la destra aveva già dato la misura piena della sua avversione agli argomenti del centro ed a chi, soprattutto, se ne faceva banditore. Già il prof. Umberto Ricci aveva posto i suoi liberali punti puri sugli "i". Avete mai letto il capitolo dedicato dal prof. Prato all'odiato gionittismo nel suo saggio: "Tirando le somme", scritto dopo l'avvento fascista? Con quei medesimi accenti parlò, allora, il prof. Ricci, ed, invero, le sue opinioni non erano disprezzabili, né apparivano infondate, dal suo punto di vista, le diffidenze per la democrazia "che si propone il connubio tra liberali e socialisti". Piuttosto bisognerà rivederlo in seguito, questo egregio economista liberale, se non proverà orrore per l'economia, via, pur essa, un pochino associata dell'on. Mussolini; se, cioè, avrà la serenità di spirito per constatare che, tirando le somme, siamo come prima, anzi, peggio di prima. Non si dubiti che, già allora, codesto liberalismo puro meravigliò qualcheduno, specialmente quando, a sostenerne le sorti, sorse anche a parlare l'on. Gray, oggi fascista, ed, in quel periodo, come già dissi, nazionalista della U. Costituzionale di Novara; il quale non escluse "la possibilità, in un domani prossimo, dell'incorporazione dei nazionalisti nel grande partito liberale". Idee nette! In tanto e tale gioco di equivoci, il senatore Luigi Albertini, quasi dubitando, si sarebbe detto, che la destra e la sinistra ed il centro acchiappassero senza riguardi le sacre idee per scagliarsele nella schiena come sassi, con il suo dissertare serrato e la sua dizione secca e cruda, espose la dottrina economica del liberalismo, che è una fede ed una legge morale. Disse la sua democrazia contro "le sovvenzioni marittime, i premi alla marina mercantile, le tariffe doganali, i favori alle Cooperative, e tutto quel bagaglio di sfruttamento del consumatore e dell'erario, che rappresenta una forma spaventosa di corruzione quotidiana a destra ed a sinistra". E pareva che volesse dire ad ogni piè sospinto: ma che gente siete? siamo qui per truffarci, o per fondare un partito? Ma pensava ben ad altro che al liberalismo puro l'assemblea, ed egli toccò un solo tasto, e fu meno, perciò, quello che disse, di quanto avrebbe dovuto e saputo dire. Segnò una igienica pausa, una sosta, in quel tafferuglio oratorio, dal quale ne uscì malconcio quel brav'uomo dell'on. Fazio, vero capro espiatorio del Congresso, fedele sergente, ma, ohimè, nulla più che sergente, di quella benemerita e flagellata democrazia che, dottamente affermò, "da quarant'anni a questa parte ha guidato il nostro Paese". Mi affretto ad avvertirvi che i torinesi e buona parte dei lombardi non privarono il valoroso Pietro Micca, saldo alla consegna, del loro appoggio, nel fragore della battaglia, la quale ebbe una tregua lunga, quando intonò il suo canto il prof. Giovannini.





Il Prof. Alberto Giovannini

    Insigni le sue qualità oratorie. Non badate al pensiero, prestate orecchio al suono della sua voce pastosa: essa vi cullerà dolcemente, v'inciterà alla lotta, vi commuoverà, vi farà sorridere, come la maschera visiva del compianto Ermete Novelli. Egli, delle sue virtù vocali, sa far velo al cauto pensiero. Il discorso che tenne allora fu buono e, dal suo punto di vista, abile. Propugnando l'unione delle forze, con volo rapido e leggero, si professò liberale puro, ma non ignaro degli errori della destra storica e dei meriti della sinistra; ricordò il connubio Cavour-Rattazzi, Crispi, Sonnino, e, con riverenza, il patriottismo di Leonida Bissolati, per contrapporlo, un morto contro ad un vivo, a Filippo Turati. Si richiamò alla democrazia di Giuseppe Mazzini, che è, disse, "essenzialmente antisocialista"; ed, infine, affermando che "la forza fascista deve trovare un partito liberale che sappia disciplinarla nell'alveo della legalità e non lasci disperdere nella negazione del passato tutto ciò che il passato ci ha tramandato di vitale", trascinò tutte le frazioni del Congresso all'applauso. Ma che peccato e che stranezza però che il futuro segretario politico del neo-partito liberale, che questo valoroso mazziniano e liberale puro, che questo dotto cavouriano ed economista, tanto voglioso di svolgere la sua attività in Montecitorio, si sia lui disciplinato, contro le intenzioni, nelle legalità del fascismo e del suo duce, durante la dura vigilia d'aspettazione, che corse dall'ottobre del '22 al 6 aprile del '24. Eventi umani.

Il vero volto del congresso

    Poniamo da parte le lotte di persona (l'ostilità di Sarrocchi e dei suoi colleghi parlamentari verso l'on. Belotti, il quale, diventando ministro, uscì dal loro gruppo); la ripresa faziosa del preteso monopolio patriottico sull'interventismo bellico da parte dei medesimi; le paure perduranti del comunismo anarcoide; la crisi ministeriale latente; le debolezze governative ed il disordine pubblico. Nei congressi pare che tutto debba procedere sotto l'impulso generico delle tendenze: a tutto si accenna e nessuno precisa. Ma il problema vero, agitante l'anima del congresso era economico-sociale e finanziario. La destra, quando urlava contro la demagogia, pareva intendesse dire: non vogliamo la nominatività dei titoli, e Dio ci salvi dal diluvio collaborazionista di sinistra. Pareva volesse prendere le sue vendette sul precedente congresso dell'aprile '921, primo tentativo di fondazione del Partito, in cui fu sanzionata, con un voto unanime, la definizione della proprietà, non come diritto, ma come funzione sociale, collaboratrice del lavoro.





    In quel congresso è strano che nessuno avvertisse il pericolo, almeno dal lato della serietà culturale, di turbare il sonno della morta gente, d'invocare le tradizioni. Perché è assurdo parlare di liberalismo puro, quando si cita la destra storica del Minghetti e dello Spaventa, che volevano l'esperienza dell' esercizio ferroviario di Stato e, su quel progetto, vollero procombere, con la loro parte, nel '76; quando non si voglia dimenticare che, proprio il primo, scrisse un trattato per dimostrare le attinenze che corrono fra la morale e il diritto e l'economia, concludendo, precisamente come il Gioberti ed il Mazzini, nelle necessità di limitare in varia guisa l'individualismo economico; mercé l'intervento statale, in nome e di quel diritto e di quella moralità. Come si può esaltare il nome di Sonnino, la sua idea del grande partito, quando non se ne accettino le altre, che ne formano il contenuto, limpidamente esposte in tutti i suoi scritti e discorsi, e che si trovano riassunte nel famoso "Quid agendum?" Quel documento dei tempi, così significativo, che rimonta al '900, ti offre il più vistoso piano di politica del lavoro e di socialismo di Stato che un liberale abbia potuto mai concepire. Sonnino pei suoi progetti riformatori di legislazione sociale, fu il teorico di Giolitti, il quale si guardò bene, d'altra parte, nella sua prudenza tattica o quietudine, di tentarne l'attuazione completa ed a fondo. Era la fisima internazionalistica del proletariato socialista impedimento alla collaborazione, dunque? Buona è la tesi; ma le coscienze intuitive di cui si compongono le masse non sentivano, guerra durante e poi, che la classe dirigente borghese manca di unità e forza morale? Ignoravano che tutti i transfughi pastori del socialismo più o meno acerrimo, violento, blanquista, antipatriottico, trovano tutti gli onori, le glorie e la fortuna in braccio alla borghesia scettica, avida e pavida, priva di correttezza e dignità? La parte più accesa della destra al congresso ben altro voleva che il liberalismo puro. Voleva, minacciata nella concorrenza dal socialismo proletario, la stabilità del suo socialismo, il socialismo borghese, che ti fa dello Stato la società anonima per azioni della plutocrazia protetta bancaria, industriale e agraria; voleva un liberalismo oligarchico, senza libertà; temeva una giustizia tributaria democratica; voleva in una parola, il fascismo, ma, oh demone dell'ambizione egoista, con i fascisti servi.





    In quel congresso tutto, o quasi, fu mediocre, acre, volutamente ristretto in angusti orizzonti. Come fondare un partito senza stabilirne le direttive concrete in politica estera? Ecco un altro argomento di alta importanza, che avrebbe segnato un distacco chiarificatore fra liberalismo e democrazia da un lato, e nazionalismo dall'altro. Nel decalogo fu accolto il principio della proporzionale, ma nel medesimo articolo si richiede il governo di gabinetto, con un'incoerenza evidente anche per i meno informati sul diritto costituzionale. Eppure il problema basilare di governo e di rappresentanza parlamentare mai, dal '19 in avanti, se eccettui il periodo che corre dal '76 all' 82, si dimostrò, in Italia, di una gravità sì eccezionale.

    A Bologna sorge il P. L. I. ma, subito, ne fanno parte i liberali-democratici ed i democratici, sdegnati ed offesi. Tosto proveremo la durezza del loro metallo.

    Il Sindacato industriale, con le sue vedette torinesi appostate, intente e mute a Bologna, l'on. Mazzini a destra, l'on. Olivetti al centro, ma in collegamento, i politici economici, insomma, sorvegliano il maturare degli eventi, che sono prossimi, con qualche preoccupazione, forse, che Mussolini stia per instaurare un regime proletario tricolore. Breve l'attesa, felicissima la soluzione, il cui risultato supera le speranze: sgombra e sicura è la via dei trionfi plutocratici. I dissidenti di Bologna accettano il nuovo salvacondotto politico, col nome di partito abbreviato. Tutti "piegano i ginocchi davanti alla storia che passa": quelli che adorano, quelli che implorano, quelli che, nel segreto dell'animo, imprecano.

    Fra tutti quegli egregi signori del congresso di Bologna uno solo è in piedi: Luigi Albertini.

CRITONE