COSE MAI VISTE

OJETTI IMBRONCIATO

    L'invito era lusinghiero. Scritto su una carta fibrata, azzurrina, intestata semplicemente così "V. Salvatino". Per l'indomani, alle nove, al mio albergo; egli sarebbe passato con la macchina, e via ad Arezzo, a vedere insieme la "Leggenda Aurea", affrescata da Piero della Francesca nell'abside dei Cappuccini. In caso di impedimento, telefonare.

    Non telefonai. Ojetti fu puntuale.

    C'era - o mi parve di vedere - in lui un po' di premura ad essere subito di buon umore, alla prima battuta; come per farmi toccare che, proprio, queste vicende della convalida mancata non gli avevano tolto il garbo e la voglia di essere gentilmente adulatore anche con i pesci piccini, come me. Una grossa borsa di cuoio nero, tipo curialesco, era posata sull'imbottitura del sedile: pareva gonfia di carte. Forse, tutti taccuini per appuntarvi le cose viste? Poteva anche darsi. Sapevo - lo sanno tutti! - che sotto quest'aria facile di discorritore, ci han da essere molti schedarii, e dimolti segnalibri, e di molte spuntature in margine ai classici, e dimolto lavoro di schiena, dimolto orario, e dimolto metodo: e state certi che quando Ojetti si parte per veder qualche cosa, tempera per bene il suo lapis, come un piccolo réporter; di quelli, appunto, ch'egli chiama con squisita benevolenza, "caro collega".

    La macchina infilò presto la Barriera Aretina, e si fu sulla gran strada di Romagna, per Pontassieve. Il suburbio fiorentino, attorno a San Salvi, mi parve più ignobile e più motoso che mai; son passate le sagre, l'Era nuova e la restaurazione nazionale, ma nelle bassure attorno a Firenze la guardata degli uomini, il lerciume delle mura, quelli non mutano; solo che, adesso, gli anarchici non vogliono più stuprare persone della Sacra Famiglia, ma badano a far tenere esposte, e bene, le bandiere tricolori. Grandi scritte a carbone, su per i muri delle case, e condotte senza risparmio di braccia, da gente sicura di poter sconciare alla faccia di quel dio, con tutto comodo. Così: "I fascisti non perdonano", oppure: "Comunisti, attenti alla legnata, passino quelli della disperata", oppure: "tutti a letto", oppure: "Pescicani, vomitate"; e baronate e camorrate di questa forza tutte ripiene di nerbo toscanaccio e di fervore estremista.





    Tanto per dire qualcosa, osservai al mio illustre compagno di viaggio, che la materia c'è, ormai, per scrivere un altro "Mio figlio ferroviere" a rovescio. Per lui, scendere dal Salviatino a San Salvi e a Ripoli, era un momento e aveva sottomano la meglio, e più sfarinata polvere umana, che dai sepolcri italiani sia mai stata scaturita; e oggi, col regime dei Ciompi rinnovati, in pieno trionfo. Ma Ojetti non parve gradire questo invito; e forse ci scorse una allusione al suo amico Mussolini, che non c'era, lo giuro.

    Preferì farmi notare i pilastri indicatori, ai bivi delle strade.

    Bei pilastri granducali, tirati su senza lesinare sulla pietra e sulla calcina: di linea dolcemente barocca, di gusto lorenese. E la lastra, di marmo; e i caratteri, scalpellati bene. Avete veduto la scritta: "Strada di Arezzo e della chiana". Nitida, come i frontespizi bodoniani: la stessa arte nelle pancette e nelle gambe delle consonanti, la stessa proporzione degli spazi tra parola e parola, tra riga e riga. State attento al primo che troveremo. Niente divagazioni; i cartelli segnalavano i grandi itinerarii del granducato, e da quei nomi antichi viene ancor oggi un profumo di Toscana soda e montanina: "strada di Pisa e Livorno, Strada di Vadipesa, strada di Mugello". Niente di tutti quei numeri e quei segni cabalistici del Touring, che nessuno legge, così sciatti e fitti. Vi dico: un frontespizio bodoniano. Già, in quel tempo, e in quel secolo, da qualunque parte ci si rifaccia, e sia pure dai pilastrelli stradali, si trova gente di gusto e d'ingegno.

    Egli aveva veduto veramente tutto, passando di volata dinanzi ad un bivio; nel discorso c'era, intiero, il suo dono visivo, e la squisita felicità sua, di ascendere al regno delle grandi altezze sul filo della prima occhiata, sicuro come il carozzone del Rigi-Kulm ascende al regno dei grandi panorami sul cavo della funicolare; ma più gentile. Anche la lieve nostalgia del Settecento lorenese quadrava bene a queste riflessioni del Conte Ottavio in automobile. Chi, in una mattina di autunno, filando via lungo l'Arno e salutando da lontano le abetaie sui colli, non si sente un po' granducale?





    Si passò l'Arno sotto l'Incisa. Da una casetta sulla strada, Lucrezia dei Mazzanti fece il salto nel fiume per sottrarsi a certi lanzichenecchi tedeschi che la volevano violentare: e una lapide attesta ancor oggi il fatto memorabile, di una donna che preferì la morte alle emozioni della gran vita. Da una colombaia, posta sul tetto della casetta di Lucrezia, s'involano oggi colombi in amore; e s'involarono, proprio mentre passavamo noi. M'aspettavo qualche motto di Ojetti su questa coincidenza perfettamente suscettibile di essere rimpolpata fino a fare un capitolo di "Cose viste"; ma lui non parlò.

    Parlò invece a Montevarchi.

    Montevarchi, borgo sacro alle urlatacce bolsceviche e alle randellature fasciste, ha la sede del fascio proprio nella casa, che appartenne alla famiglia del Varchi, storico fiorentino. Le vie del borgo erano tutte imbandierate, impomponate, infiocchettate per non so che sagra. Quella tal sede poi, era sguaiata, al solito, peggio che un cinematografo suburbano: perché l'ondata di gazzarra, che copre tutta la Toscana, si ringorga qui, nel Valdarno, e dà qui fuori la schiuma più lercia, i ciuffi di bravi più osceni, e le scritta murali più vituperevoli. Ojetti ne parve offeso; e più, del fatto che coi cartelloni da cinematografo avevan mezzo coperto la nobile casa dei Varchi, il cui solo nome suscita memorie di prosa paludata e sostenuta.

     - Conoscete il Varchi?

     - Debolmente.

     - Fu un uomo felice. Io lo amo, perché celebrò sempre per le più deliziose del mondo le colline di Fiesole. C'era stato tirato su fin da ragazzo: perché suo padre, ch'era ser Giovanni, aveva fuori della porta a Pinti, in sulla via che va a Fiesole, una sua bella villetta, la quale posseggono oggi quelli della Fonte; e tutto il tempo che gli avanzava dai suoi negozi, quivi con i suoi figlioli in santa conversazione si dimorava. Così almeno, di lui dice uno dei suoi biografi. Ora guardate come gli han sconciato la casa, al mio colligiano, al mio compatriota di Fiesole.





    Una pausa.

     - Eran tempi buoni, quelli, per uomini come noi. Si sarebbe avuto di buon'ora qualche benefizio, e colle rendite avremmo potuto vivere placidamente. Aver commissione da Leonora di Toledo, di volgarizzare Seneca De Beneficiis! accompagnare cardinali e prelati nelle visite ai luoghi santi dello Stato del Duca, come l'eremo di Camaldoli, Vallombrosa o la Vernia; e lavorare in pace. In fondo, mio caro amico, che cosa cerchiamo me, e voi, e tutti gli uomini del nostro taglio e dei nostri costumi?

    Lo ringraziai con tutta l'affabilità disponibile della grazia di avermi associato a lui, in quel mellifuo noi.

     - E vivere nella intimità di sovrani di talento, che vi apprezzavano, vi complimentavano, aggradiano i bei periodi e le nobili frasi: e potevano darvi una distinzione, farvi un favore, senza essere costretti a seguire norma nessuna di legge e di regolamento, né paragrafo né capoverso; e sopratutto, distinguevano, sceveravano, non facevano accoppiamenti offensivi, non facevano gaffes. Signori, caro mio, Signori. C'è un aneddoto delizioso sul Varchi. Lo storico chiudeva ogni libro delle Storie fiorentine con un complimento ben rigirato, ben tornito, a Cosimo dei Medici, Cosimo il grande. Poi se ne scendeva più dalla sua Pieve di San Gavino, e lo andava a leggere al suo patrono ed amico. Questi, quando lo udiva leggere, riferiscono che stesse con meravigliosa attenzione ad udirlo; e spesse diceva: "Miracoli, Varchi, miracoli". Quanto è fine, voi lo udite, il complimento! E il solito biografo non aggiunge altre parole del Granduca. Bastano queste: "Miracoli, Varchi, miracoli".

    Ojetti stette così, colle dita prelatizie piegate nel gesto dell'Orate fratres, e il volto compunto non so se per imitare bene la cortesia del Granduca mediceo, o per esprimere tutta la sua ammirazione verso quel tiranno geniale.

     - "Miracoli! Oggi, si può cesellare un profilo...

     - Quello del re a Peschiera, arrischiai per dar vivezza al discorso, e fargli toccare che conoscevo i pezzi duri delle "Cose viste".





     - Lasciamo andare se quello del Re a Peschiera, o quello di Mussolini oratore, riprese lui arditamente, e fissandomi per farmi capire che non aveva paura di niente. Dicevo un profilo qualunque, in cui traluca un po' di simpatia, un po' di comprensione, per un potente della terra. Cosa succede? Costui, o non apprezza, o non ha mezzi per esprimervi la sua simpatia: mai mi son sentito dire così, da buongustaio, a quattr'occhi: "Miracoli, Ojetti, miracoli". Mai. Tutt'al più un decreto, combinato a casaccio, appioppato tra capo e collo, che vi arriva come una schioppettata... Perché, voi lo sapete?

     - Lo so, lo so. Me lo avete anche scritto. In due anni, siete stato a Roma quattro volte: e Mussolini, lo avete visto due volte. Quella nomina fu una schioppettata davvero.

     - Al rumore, amico mio, al rumore. Perché, poi, fece cilecca.

    Ritrovai per un istante, nel sorriso di questa battuta, l'Ojetti migliore: Ma riscomparve subito sotto una seconda ondata di riflessioni amare sul caso di Benedetto Varchi.

     - E poi, l'altro impaccio grosso, oggi, è la muta dei botoli che salta addosso all'incauto autore, appena pone una dedica niente cortese, o dà una piega gentile ai proprii periodi. Il Varchi aveva buon gioco, allora, a chiudere i suoi libri, ringraziando la benignità di Dio che gli dava vita e sanità, e la liberalità del duca Cosimo che gli assicurava ozio e comodità. Nessuno malignava, nessuno insinuava; nessuno andava rombazzando che il Varchi voleva esser fatto senatore, per esempio. Vedete: la eleganza di quel secolo beato sta per me in questo: nella scorrevolezza delle lodi, del nessun scandalo che se ne faceva. Per gente come noi, mettere i libri nostri sotto protezione di qualche gran signore é un diletto; proviamo, anche noi, e prima, la sovrana soddisfazione di donare: Ma guai a chi si prova. Il caso Pirandello: terribile. Di me non dico, che ho la pelle dura: e poi, parlo a un gran publico, son chi sono, c'è Mussolini che mi nomina senatore, i senatori ministeriali che mi bocciano, i senatori di opposizione che mi difendono, e dei delicati amici che continuano a volermi bene. Però, son sempre impacci, e si finisce coll'ammirare sempre più quel beato Cinquecento.





    Era già il secondo secolo, verso cui volava il rimpianto di Ugo Ojetti, durante questa automobilata. Prima il Settecento, ora il Cinquecento. Tetro giorno di nostalgie, m'era toccato: o erano i soffii premonitori di un prematuro pessimismo senile che ingrugnavano così il viso e i giudizi di Tantalo? Non so. Fatto sta che, prima di sboccar sopra la Chiana, la strada fa giri e rigiri in trincee e scarpate, per certi borri; e là, su una piaggerella tutta quercioli, si vide un vecchino, con un sacchetto, e un can da pagliaio che fiutava il vento. E Ojetti, a far segni al vecchino: ma quando lo chauffeur frenò davvero, e fermò la macchina, costui era già sorpassato di cinquanta metri, e venne lemme lemme, col sacchetto sempre a mano. Ojetti, intanto, mi diceva soddisfatto di se:

     - Vedrete, che almeno questo si porta a casa. Questo ometto è un tartufaio: qui i tartufi ci fanno bene, è un tartufaio certo, capitato alla cerca.

    E al vecchino

     - Buon vecchino, volete cedermeli due tartufi?

    L'altro ci guardò con occhi malvagi.

     - Oh, raccatto per andare là là, tanto per campicchiare, cari signori!

     - Ma insomma, ce li vendete i tartufi?

     - Che vitaccia! Lavoro, lavoro e poi sempre lavoro. Eh, per chi non è signore, la morte finisce tutti i guai. Ci si regge male, a queste fatiche, e avere stronche le braccia!

     - Auff, quanti discorsi! Noi vi si paga subito. Fuori i tartufi.

     - E non ce n'énno. Non raccatto tartufi, io.

     - E che raccatti?

     - Raccatto ghiande.

    Che risata! Ridevo io, lo chauffeur, e il vecchino. Ma Ojetti non rise.

     - Via, via, via, grullo. E tu fila.

    Una schiacciata al pedale, un rombo, e si proseguì. Ma Ojetti stette zitto fino ad Arezzo; e parlò solo per ordinare allo chauffeur di fermare alle Chiavi d'Oro "Accanto alla Chiesa di San Francesco: due passi per vedere gli affreschi".

    Grandi accoglienze al "signor Senatore", ch'era conosciuto: ma colazione punta. E punti affreschi; la chiesa era chiusa fino alle due. C'era tutto il tempo di fare un giro in città.





    Il giro fu nero. Sentivo, che, per quanto si fosse discesi alle Chiavi d'Oro, eravamo tutt'e due, precisamente, fuori chiave. La mia risata, quando gli era stata data quella rispostaccia delle ghiande, aveva seccato Ojetti. Quando un uomo come lui crede di aver trovato tartufi, e gli offron ghiande, è un brutto momento per ridere. Non mi pareva neppure, con quell'aria preoccupata e aggrondata, che avesse gran voglia di illustrarmi Piero della Francesca; e mi dava da dire quella tal borsa curialesca, che s'era messa sottobraccio. Ugo Ojetti non va attorno per Arezzo come un deputato che voglia becherare, o come un legale che sia venuto qui per una causetta di tribunale. Ero deluso di lui; una lunga ammirazione, alimentata settimana per settimana, come lume dal beccuccio di una brocchetta d'olio, da colonne di elzeviri, vacillava, lappolava. A vedermelo accanto con quella borsa, finivo per crederlo capace di tutto: perfino di avermi fatto dei complimenti, per legarmi la lingua, che non mi divertissi dietro alla sua nomina a senatore. Che sospetto! Che sospetto atroce!

    In piazza Grande, c'era stato mercato di pollame, di prima mattina; e i rivenduglioli badavano a caricare su' carri le stie e i cestoni. C'era da impollinarsi perbene. Ma non ristetti però dall'andare a leggere l'iscrizione sul basamento della statua a Ferdinando III di Lorena, prosciugatore, anche lui, e risanatore della Chiana. Ojetti dietro, ma per pura compiacenza.

    Ora, quell'iscrizione è amena. C'è in alto:

    Ferdinando III Austriaco

    adsertori publicae felicitatis

    ordo Arretinorum universus

    M.L.CCCXXII

    Dunque, una dichiarazione di lealismo lorenese.

    E più sotto:

    Il popolo toscano

    attingendo l'audacia concorde

    dal pensiero di Dante e dal cuore di Ferruccio

    nel XVII Aprile l854

    ricacciava sulle vie d'Austria

    l'ultimo Lorenese.





     - Illustre amico, dissi a Ojetti con tutta innocenza e soavità; ecco il nostro adorato paese, compendiato in questa duplice iscrizione. Sopra, l'apoteosi; e sotto, il calcio dell'asino. "Ordo Arretinorum universus", nel '22, si perleccano le labbra, dalla soddisfazione di potere adulare il principale. Neppur quarant'anni dopo, allez, cambia solfa. Non si latineggia più. Guerrazzi è sul candeliere. "Col pensiero di Dante e col cuore di Ferruccio", vi prego: e dite bene la frase. Rassettatini, prudenti, savii, non ti compromettere, gli aretini, venuti alla stretta del sacco, non vollero neppure sacrificare il loro monumento, tutto riboboli granducali. Vi apposero sotto l'errata corrige, semplicemente. Ed erano, costoro che ebbero la pensata, gente colta, gente fine, gente che va per la maggiore: gli ottimati, ordo Arretinorum. Pensate quelli che vendevano, come vendono oggi, pollame su questa piazza... Non è un popolo, è della materia prima per le sagre.

    E Ojetti agrodolce:

     - Eccovi in un accesso di gobettismo, caro mio. Guardatevene.

     - Non è vero. Gobetti non c'entra. Ma ditemi voi, piuttosto: che differenza c'è tra queste dediche lapidarie e le scritte a carbone che abbiam veduto stamattina a San Salvi e a Pontassieve? Viva i Lorena - Viva Vittorio Emanuele - Viva Lenin - Attenti comunisti che passa la disperata. Sempre uguali a noi stessi, e tutti; dal sovversivo di fuori porta al Senatore del Regno...





    Era detta, anche questa. Ma l'Ojetti, brevino brevino, non mi dette neppure tempo di gustarne gli effetti. Con quei certi attucci degli uomini di mondo che voglion far capire di annoiarsi, mi disse che doveva salire un momento a palazzo, in Prefettura, per dei suoi affarucci; e che lo aspettassi alle Chiavi d'Oro. Lo confesso: rimasi lì, come Giona: un po' mi rimordeva d'aver chiacchierato troppo; un po'...

     - Ma infine, se l'hai per traverso, non te la raddrizzerò io. Sia come si sia, aspetterò alle Chiavi d'Oro. In fin dei conti, fu lui che mi invitò, sapendo come io la pensi.

    Ma si. Aspetta! Passò mezzogiorno, e si avvicinò il tocco. Ojetti non compariva.

    Chiamai allora lo chauffeur, ch'è un giovanottino spigolo e sveglio, e avevo subito capito che ha entratura col signore del Salviatino.

     - Dì un po'; e il padrone?

     - Uhm, gli ha da essere affare lungo.

     - Che affare?

     - Ma io 'un so nulla, altro che per me aveva appuntamento con l'Agente delle Imposte di Arezzo. E sarà per via della tenuta in Chiana, rincalzò quell'aspide, col ghigno dei fiorentinacci quando parlano delle tenute in Chianti, che per le tasse deve dipendere di quaggiue. Chi ha terra ha guerra: ma il padrone la guerra la fa all'incontrario degli altri, e adesso è tutto fòco per farsi aumentare le tasse, Lei mi capisce.

    Se capito! Tutto: anche la borsa di cuoio.

    Di Piero della Francesca, e degli affreschi, non si parlò più. Tutti e due, Ojetti e io, d'intesa, si fece finta d'essercene dimenticati. Un uomo che si arrabatta per farsi crescere i balzelli, fino al censo senatorio, non ci si va insieme a vedere Piero della Francese. Con lui non si trovan più, nemmeno in arte, tartufi; si trovano ghiande.

    L'indomani gli mandai un biglietto da visita con p. r.; e la relazione finì lì.

G. A.