UNA BATTAGLIA LIBERALE

    Mentre prepara nuovi intransigenti combattenti la Rivoluzione Liberale chiede ai combattenti di oggi, al di sopra di ogni dissenso o differenza, il coraggio di rivedere le proprie posizioni, di agguerrirle, con inesorabile coerenza di essere se stessi. Pubblicando la forte prefazione al nuovo libro di G. Amendola che uscirà tra pochi giorni (indirizzare prenotazioni con vaglia di L. 10 all'editore Gobetti) noi offriamo appunto disinteressatamente ai lettori un esempio di questa chiarezza per la quale lavoriamo: indicare dissensi e differenze ci sembra superfluo poiché già li abbiamo fatti conoscere.

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    Aderendo all'invito, rivoltomi dall'editore Piero Gobetti, di raccogliere in un volumetto i discorsi da me pronunziati, nella Camera e fuori, durante il periodo corrispondente alle due legislature postbelliche (1919-1923), ho inteso riconfermare pubblicamente una direttiva di pensiero politico, mantenutasi rettilinea attraverso le accidentalità, gli imprevisti e le catastrofi di questi anni eccezionali, e che può, a mio avviso, rivendicare i suoi titoli non soltanto dinnanzi al passato, bensì anche dinnanzi al presente ed all'avvenire. Tale direttiva si riassume in una appassionata ed incrollabile fede nello Stato nazionale, concepito come la sola creazione veramente rivoluzionaria in un millennio di storia del popolo italiano, e come la sola garanzia efficace del suo avvenire; ed in una consapevole volontà di azione rivolta ad introdurre tutto il popolo nella vita dello Stato, allargando, profondando e consolidando le sue fondamenta in tutta l'estensione spirituale della coscienza italiana.





    Tale concezione profondamente democratica ed italiana - di una democrazia, però, che trova le sue premesse piuttosto in Silvio Spaventa che nelle quotidiane rimasticature degli immortali principi (che poi vedemmo pietosamente inchinarsi dinnanzi alle radicali negazioni del fascismo), e di un'italianità pervasa da fraterni sensi di solidarietà verso le masse popolari, quale fu sentito nei giorni della grande guerra, allorché gli ideali della nazione italiana sarebbero stati battuti se il popolo dei campi e delle officine non avesse consentito a farsi guerriero - andò incontro ad una memoranda sconfitta nel '21-'22, per la constatata mancanza di forza attuale dello Stato italiano, il quale non fu in grado di assolvere i compiti che gli erano imposti dalla situazione storica del Paese, e si ridusse, quasi volenteroso, attraverso un graduale processo di successive abdicazioni, fino a quella frana memorabile che passerà alla storia col nome di "marcia su Roma". Fu una sconfitta, dunque, dovuta piuttosto ad una irrimediabile deficienza organica e morale dello Stato italiano, che non ad un difetto essenziale di concezione politica. Oggi, caduto e trasformato quello Stato al quale chiedemmo invano di scendere, arbitro audace ed imperioso, in mezzo al conflitto tumultuoso e tormentoso che travolse la società italiana tra il '19 ed il '22, mettendo in pericolo le basi medesime della convivenza nazionale, noi risolleviamo la nostra fede al disopra delle contingenze dell'oggi, sicuri che solo la sua luce può permetterci d'intravvedere e di costruire l'avvenire politico del popolo italiano.





    "Battaglia liberale" ho definito, riassuntivamente, queste manifestazioni oratorie, perché esse vivono tutte di un solo presupposto: che cioè le istituzioni nate dalla dottrina, ed appoggiate alla tradizione liberale, avessero la virtù necessaria per dominare e per risolvere i conflitti che accompagnarono in Italia la crisi postbellica, ma altresì perché esse hanno tutte, come centro di gravità morale, il concetto profondamente liberale, che tutti gli italiani avessero un precipuo interesse a risolvere le loro differenze, in uno spirito di mutua solidarietà, ed in ogni caso senza travolgere le basi storiche della loro convivenza, consistenti nel libero consenso richiesto per la costituzione di effettive maggioranze politiche. Ma il tono ed il linguaggio di questi discorsi appariranno stranamente dissonanti al confronto di quelli che prevalsero in Italia durante gli anni trascorsi dall'armistizio ad oggi, così come il linguaggio della ragione stride nel confronto col linguaggio della passione. Questa distanza di tono sentimentale ha determinato molti gravi malintesi, molte malefiche incomprensioni, ed ha reso, fino a questo momento, praticamente impossibile una seria discussione diretta a chiarire la natura ed il valore dei dissensi passati. Certo chi uscì dalla guerra con la convinzione che l'Italia avesse impiegato nello sforzo bellico tutte le energie disponibili, e che pertanto dovesse proporsi un immediato riassetto interno ed internazionale, per prepararsi senza ulteriore perdita di tempo e di forze alla necessaria ricostruzione, non poté parlare lo stesso linguaggio né battere gli stessi sentieri di chi sentì la guerra sopratutto come uno strumento rivoluzionario ed avendola giustificata, nella propria coscienza, con fini di sconvolgimento interno oltreché internazionale, non si sentì pago se non quando lo strumento della guerra ebbe impiegato fino alle sue estreme conseguenze.





    Certo chi tornò dalla guerra pronto all'antica non mai rinnegata disciplina verso lo Stato, che come aveva ordinato l'inizio del sacrificio cruento così poteva ordinarne la cessazione, e con essa il ritorno alle pacifiche attività produttive, non poteva né sentire né operare allo stesso modo di chi dalla guerra tornava con animo iconoclastico, e con un sentimento, o di vendetta o di avventura, che doveva fatalmente cercar soddisfazione a spese del vecchio Stato italiano, considerato come un edificio lesionato e cadente, cui si trattava soltanto di dare l'ultimo crollo per sgombrare la strada verso l'avvenire. Per le vie della vendetta si cacciavano tutti coloro che avevano subito la guerra e che attendevano la rivincita nella rivoluzione - e così assistemmo all'ondata della follia bolscevica -; per le vie dell'avventura si orientarono senza rimorso i nazionalisti e quegli interventisti di sinistra da cui poi trassero origine i fascisti: ne nacque un conflitto profondo e dilacerante, nel quale lo Stato liberale non seppe intervenire in tempo, e che anzi esso contribuì ad accentuare e ad aggravare con le elezioni del '21, premessa necessaria della conquista fascista dello stato. Così accadde che la soluzione della crisi post-bellica italiana sfuggì allo Stato, e che la "battaglia liberale" del dopo guerra nella quale, del resto, pochissimi avevano creduto - fu una battaglia perduta.

    Coloro i quali si illudono di avere imprigionato la dottrina ed il metodo del liberalismo nell'organizzazione ufficiale che ne monopolizza il nome, insorgeranno contro questa ricostruzione per grandi linee del passato recente, e rivendicheranno indubbiamente la loro fedeltà "fiancheggiatrice" alla grande tradizione liberale italiana, accusando noi di deviazione "democratica". Ma mentre la difesa non può nemmeno essere presa in considerazione da chiunque abbia orecchie capaci di percepire la radicale negazione sulla quale il fascismo quotidianamente accomuna liberalismo e democrazia per contro l'accusa non ci sembra accusa; e non soltanto non la respingiamo, ma anzi essa ci offre un'occasione propizia per chiarire un punto di capitale importanza per gli attuali dibattiti politici.





    Che un regime di libertà, fondato sul gioco delle maggioranze formate in base al consenso liberamente ottenuto, costituisca l'ambiente storico più adatto per l'affermazione del diritto politico dei più, e sia propizio all'ascensione politica delle masse, é così ovvio, che non mette conto indugiarsi a dimostrarlo: ed in ciò trova il suo fondamento quel liberalismo democratico che ebbe così larga parte e così decisiva influenza nella storia politica del Regno d'Italia. Ma in Italia, alle ragioni dottrinarie, si aggiunsero sempre ragioni storiche concrete, le quali diedero alla corrente democratica un valore particolarissimo ed eccezionale. Giacché il Risorgimento significò non soltanto la conquista della indipendenza e della libertà, ma significò altresì e sopratutto, l'ascensione di strati profondi del popolo italiano, - vissuti per secoli sotto il livello della storia, - verso la luce della vita politica, entro l'ambito dello Stato: e questa ascensione, progressiva e continua, del popolo entro lo Stato, era veramente democrazia e non poteva non chiamarsi democrazia. Lo Stato si allargava e si approfondiva nel popolo; il popolo saliva e si impadroniva dello Stato: questo é il principio che scaturisce dal Risorgimento, e che accompagna la formazione e lo sviluppo dello Stato nazionale.

    Il socialismo trova il suo posto e la sua interpretazione - come fu più volte osservato - nel quadro di questo processo formativo; e lo stesso fascismo può considerarsi, ad onta di ogni apparenza e di ogni proclamazione dottrinaria, come la sua fase più recente, in quanto esso associa, più o meno stabilmente, strati larghi di popolazione a quella vita intima dello Stato che é la partecipazione alla coscienza della Patria, ed in quanto realizza - sia pure in forma confusa, indisciplinata e partigiana - un conato di governo diretto, che peraltro viene compiuto con pericolo non indifferente per l'unità organica e morale dello Stato.





    Ora, chi consideri la storia italiana degli ultimi quindici anni (periodo approssimativamente corrispondente alla esplosione del nazionalismo) non potrà fare a meno di constatare - ed é constatazione singolare - come sia per l'appunto il nazionalismo a determinare la necessità degli sviluppi democratici più notevoli che si siano prodotti entro tale periodo. Nel 1910 nulla avrebbe impedito di mantenere la nostra vita pubblica entro il limite del vecchio suffragio, e di risolvere su quel terreno, più solido e meglio illuminato, i problemi già posti all'ordine del giorno, prima di procedere ad associare nuovi strati vergini ed impreparati alla direzione politica dello Stato.

    Invece l'on. Giolitti, che si preparava ad una impresa coloniale nella quale il nazionalismo si riconobbe e si affermò per la prima volta, ebbe necessità di allargare le basi allo Stato, per sentirsi libero e sicuro. Nessuno, dalla destra, osò obiettare: il sistema della compensazione tra l'impresa di Libia e la concessione del suffragio universale, non incontrò resistenze nazionaliste, e costituì un precedente. Nel seguito quando fu deliberata la grande guerra, ed a tutti era chiaro che una guerra di popoli non si poteva combattere e vincere senza il concorso del popolo, di tutto il popolo, non coatto ma convinto, il nazionalismo dové proclamare, - non meno dell'interventismo di sinistra - che la guerra significava associazione piena, intima e permanente del popolo, di tutto il popolo alla vita dello Stato, e che al popolo dei combattenti, cui non si era chiesta una particolare dichiarazione di fede politica prima di inviarli al fronte, dovevano essere richiesti i reggitori di domani. La resistenza e la vittoria passavano per la democrazia: e la democrazia, in quei giorni, non sollevò obiezioni. Anzi risalgono a quei giorni molte incaute promesse che da inquieti pulpiti conservatori caddero a fermentare nell'anima popolare: cui più tardi, quando il medesimo egoismo era turbato da altre inquietudini, si doveva rimproverare duramente il peccato d'aver creduto. E quando la guerra fu vinta, e del prezzo della guerra parve dovesse far parte un profondo sconvolgimento sociale, parve saggia e prudente politica proprio a quei ceti che hanno alimentato e sorretto prima il nazionalismo e poi il fascismo, di precorrere sul terreno proletario le rivendicazioni popolari, e di avviarsi verso un ulteriore e definitivo allargamento del suffragio e verso la proporzionale. E se oggi non abbiamo ancora il voto alle donne, ciò non é dovuto certamente a resistenze di nazionalisti e di conservatori, sempre inclini a sostenere siffatto provvedimento, bensì al caso: mentre se la proporzionale non passò dal campo politico a quello amministrativo ciò fu dovuto alla combattività di uno scarso manipolo democratico, prima e più ancora che alla fine prematura della venticinquesima legislatura.





    Se dunque l'Italia ha proceduto con passo alquanto accelerato sulla via delle riforme democratiche ciò é stato dovuto alle esigenze di quella politica esteta e coloniale che il nazionalfascismo ha voluto, e che non poteva essere attuata senza il concorso del popolo. Poteva un'Italia, guidata da un governo di conservatori, tipo marchese di Rudinì, rinunziare ad una attiva politica coloniale ed estera e proporsi di organizzare e di rafforzare lo Stato sulla base del piede di casa: ed in tal caso si può benissimo concepire il prolungarsi per molti anni di una vita politica italiana entro il limite del suffragio ristretto, ed il raggiungimento di un ordine più serio e di una disciplina più perfetta nelle file di una classe politica meglio selezionata, con grandissimo vantaggio per la soluzione dei problemi concreti e per il rapido incremento della civiltà materiale. Ma il giorno in cui l'Italia si é rivolta verso imprese le quali non possono attuarsi con fortuna senza il sacrificio e senza il sangue delle moltitudini, allora é apparso inevitabile - ai nazionalisti ed ai conservatori prima e più che ad altri, più cauti e meno timorosi del giudizio popolare - associare le masse alla vita dello Stato, con tutte le conseguenze che da questo fatto fondamentale necessariamente derivano. Così lo svolgimento liberale dello Stato italiano é diventato svolgimento democratico, e nessuno che abbia voluto la guerra, o che almeno abbia consentito agli impegni morali assunti verso il popolo per renderla possibile o per vincerla, potrà oggi rinnegare la necessità di tale svolgimento democratico, e potrà rimettere in discussione i titoli del popolo italiano ad essere arbitro dei proprii destini, padrone delle proprie norme di vita, protagonista della propria storia.





    La crisi morale del '19-'20 - che fu in gran parte crisi fisiologica di stanchezza - non può assolvere nessuno dal dovere di aprire al popolo italiano quelle vie che gli additammo il giorno in cui lo svegliammo alla più grande e pericolosa impresa della sua storia militare. Non è ammissibile, non é pensabile, ch'esso possa essere uscito da quella impresa, non soltanto senza aver realizzato le follie di un momento di squilibrio e di stanchezza, ma anzi avendo perduto ciò di cui era in possesso il giorno in cui ebbe ad iniziarla. Persistere in un atteggiamento che legittimasse questo sospetto sarebbe il più grave ed il più imperdonabile degli errori: sarebbe non soltanto un peccato morale, ma costituirebbe altresì del disfattismo verso la nostra storia futura. Giacché quali uomini e quali governi potrebbero più, in avvenire, chiedere dei sacrifici ad un popolo il quale registrasse nelle sua memoria secolare un'umiliazione così amara ed una delusione così profonda?

    E chi, oltre a tutto, sarebbe capace di dare un aspetto permanente ed un equilibrio stabile, alla vita di un popolo, in seno al quale, stessero raccolte, in silenzioso rancore pronto ad esplodere, grandi masse di fuorusciti della vita pubblica - cui furono chiamati a gran voce nei giorni del pericolo nazionale, e dalla quale furono poi duramente respinti nell'ora della difesa sociale, e della liquidazione post-bellica? Noi non pensiamo che possa considerarsi stabile e forte un governo che debba fare assegnamento sulla forza per tenere a bada grandi masse di malcontenti - e sopratutto di malcontenti per ragioni morali. Tale compito é quanto mai arduo ed estenuante. Fronteggiarlo per un certo tempo é possibile, ma alla lunga esso vince e travolge chiunque commetta l'errore di consumare la propria eneria in un problema iniquo ed innaturale.

    Perciò, concludendo, noi pensiamo che l'Italia liberale, avendo aperto volontariamente la via, per le necessità derivate dalle sue imprese di guerra, all'Italia democratica, debba oggi non ritrarsi, pavida e mentitrice alla propria coscienza morale, dallo sforzo ch'essa medesima ha prescelto, e debba invece mettersi in grado di regolare la vita pubblica di tutto il suo popolo in maniera conforme alle necessità della disciplina nazionale, ed alle esigenze fondamentali e permanenti della storia italiana, senza più oltre indugiarsi nel proposito peccaminoso e pericolosissimo, di voler cacciar fuori dalla cosa pubblica, larga parte dei suoi figli. Non privilegiati e non banditi: ma cittadini conviventi e collaboranti in parità di diritti e di doveri, sotto l'impero di una medesima legge e di una stessa disciplina: tale può e deve essere il quadro della vita italiana, oltre la crisi che la travaglia.

    E la fede democratica maturata negli anni della "battaglia liberale" - perduta nell'ambiente morale della tempesta postbellica, più grave assai e più ingrata della guerra medesima, ma che sarà vinta domani - si volge a dominare un avvenire che non potrà sfuggire al nostro popolo di lavoratori e di combattenti, perché in assenza del nostro popolo esso cadrebbe nel nulla.

    Roma, 2 marzo 1924.

GIOVANNI AMENDOLA.