PER UNA SOCIETÀ DEGLI APOTI   1.

    Caro Gobetti,

    Quando io penso di scrivere per la R. L. la forma spontanea che assume il mio scritto è quella di lettera; mi sento incapace di trattare un argomento con la regolarità elementare necessaria ai lettori di giornale; mi sento, come suol dirsi, in famiglia e mi fa piacere potermi distendere a mio agio sopra una poltrona, e dondolare le gambe e parlare senza impegno e magari interrompermi, come usa, tra amici; non è un pubblico, questo della tua rivista, e la tua rivista non è una rivista, ma un "trait-d'union" o un bollettino di collegamento fra persone che hanno certi gusti mentali un po' differenti dai comuni. La tua R. L. è un ritrovo, dove è permesso di parlare delle cose che stanno più a cuore e confidarsi un pochino, sapendo di essere intesi anche là dove certe cose sono appena accennate perché si parla con persone intelligenti.

    A me piace questo ritrovo, perché si dice "storico". Noi siamo dunque degli storici del presente, cioè della gente che guarda e cerca di capire e di vedere come vanno le cose, e che cosa c'è sotto molte parole che corron per l'aria. Una posizione un po' difficile, come sai, piena di continui pericoli intellettuali, di trabocchetti, di seduzioni, di ossessioni da evitare; e sopratutto una posizione che chiede un rinnovamento continuo della mente, una capacità perdurante di rifarsi altri di fronte alla realtà, e alle sue magie ingannatrici.

    Sai, però, che qualche volta mi domando se questa posizione di spettatori non è un po', un pochino, dirò pur la parola, vigliacca? Diciamolo pure; ci sarebbero parecchie ragioni di sospettarlo, in momenti come questi, in cui si combatte e si muore. Non sarebbe nostro dovere di prendere parte? Non c'è qualche cosa di uggioso, di antipatico, di mesto, nello spettacolo di questi giovani (io ho quarant'anni, ma mi sento più giovane di molti giovani, e pronto a rifare un'altra vita, se occorre) che stanno (quasi tutti) fuori della lotta, guardando i combattenti e domandandosi soltanto come si danno i colpi e perché e per come?

    Forse c'è qualcuno che pensa così di noi, e non si immagina certamente che questo problema ci sarà pur passato per la mente o che avendo pur fatto le nostre esperienze e pagato anche di persona altre volte, saremmo disposti a ricominciare: qualcuno se lo domanda, il quale dovrebbe sempre riflettere ad una regola generale: che non bisogna supporre mai chi si critica troppo ingenuo o troppo imbecille e incapace di porsi domande e problemi troppo semplici; e nemmeno troppo vigliacco, perché in generale nel mondo intelligenza e coraggio abbondano più di quanto si creda.





    Comunque per altro sia, e comunque pensi l'ipotetico critico, certo è che quella domanda me la sono posta più d'una volta e più d'una volta mi ha morso. Nei momenti più gravi delle contese, mi pareva si dovesse accogliere, bene o male, l'appello di una parte e gettarsi nella mischia, pesando sulla palma della mano, per così dire, e non con la bilancia; pesando così all'ingrosso quel che ci poteva esser di buono e di cattivo senza troppi calcoli e scegliere; e fatta una volta la scelta, non ci pensare più sopra. Ma tutte le volte che questi dubbi mi hanno riempito lo spirito, sono escito sempre sgombro di loro e coll'orizzonte pulito. Il nostro compito, la nostra utilità, per il momento presente ed anche, nota bene, per le contese stesse che ora dividono e operano, per il travaglio stesso nel quale si prepara il mondo di domani, non può essere che quello al quale ci siamo messi, e cioè di chiarire delle idee, di far risaltare dei valori, di salvare, sopra le lotte, un patrimonio ideale, perché possa tornare e dare frutti nei tempi futuri. A ognuno il suo lavoro. Vi è già tanta gente che parteggia! Non è niente di male per la società se un piccolo gruppo si apparti per guardare e giudicare; e non pretende reggere o guidare, se non nel proprio dominio, che è dello spirito.

    È fin troppo facile difendere la necessità di un lavoro di questo genere. Il momento che si traversa è talmente credulo, fanatico, partigiano, che un fermento di critica, un elemento di pensiero, un nucleo di gente che guardi sopra agli interessi, non può che fare del bene. Non vediamo tanti dei migliori accecati? Oggi tutto è accettato dalle folle: il documento falso, la leggenda grossolana, la superstizione primitiva vengono ricevute senza esame, a occhi chiusi, e proposte come rimedio materiale e spirituale. E quanti dei capi hanno per aperto programma la schiavitù dello spirito come rimedio agli stanchi, come rifugio ai disperati, come sanatutto! ai politici come calmante agli esasperati. Noi potremmo chiamarci la Congregazione degli Apoti, di "coloro che non le devono" tanto non solo l'abitudine ma la generale volontà di berle, è evidente e manifesta ovunque.





    Sono abbastanza intelligente per capire che in questa onda di reazione, di tenebre, di spavento, di pessimismo, vi è un elemento indubbio di sanità sociale, vi è la naturale risposta ad eccessi ed esaurimenti, i cui effetti si sono visti negli altri o in noi stessi. Ma ciò non toglie che se tutti si gettassero da quella parte, la civiltà nostra ne riceverebbe un colpo gravissimo e potrebbe risentirne per secoli. Ci vuole che una minoranza, adatta a ciò, si sacrifichi se occorre e rinunzi a molti successi esterni sacrifichi anche il desiderio di sacrifizio e di eroismo, non dirò per andare proprio contro corrente, ma per fermarsi, in certo modo, contro corrente, stabilendo un punto solido, dal quale il movimento in avanti riprenderà.

    A fare diversamente non mi pare (mi scusino i nostri compagni, e non la prendano per una offesa personale) che siamo capaci. La vita della politica attiva, alla quale il momento tragico ci chiamerebbe, ci costringerebbe per forza all'abbandono di tutte quelle cautele dello spirito, di quelle abitudini di puliziá e di elevazione, di quelle regole di onestà intellettuale, che la generale grossolanità, violenza e mala fede rendono più che mai necessario mantenere. La vita politica non si fa se non accettando le condizioni che si trovano nel paese e nel tempo in cui si vive magari con l'intento di modificarle, di elevarle, di plasmarle poi: ma intanto bisogna accettarle ed operare su esse e con ess. Io non posso, non voglio qui citare i tipici, caratteristici esempi delle persone che meglio riescono in questo attività in Italia, e dico in tutti i partiti, da tutte le cattedre, su ogni giornale, per ogni piazza. Da questo lato fascisti e comunisti, liberali e socialisti, popolari e democratici, appartengono ad un solo massimo comune denominatore, quello della media italianità attuale. I loro gesti e le loro gesta, le loro idee e le loro complicità, i loro silenzi e le loro grida, i loro programmi aperti e quelli taciti, i loro sistemi di lotta, non variano molto; e quello che gli uni fanno, gli altri magari lo rimproverano, ma lo farebbero se ne avessero la possibilità e segretamente lo invidiano e se lo propongono per un'altra volta.





    La contrapposizione fra le necessità della vita politica e quelle della vita dell'intelligenza, è troppo facile; ed è inutile ricordare il fallimento di quelli fra noi che con estrema buona volontà e pur dotati di grandi qualità per riuscire, assai più che non la media nostra, pure si son dovuti ritirare, scontenti e disillusi e stanchi del proposito impari alle forze, non loro, ma di qualunque uomo.

    E pure sarebbe doloroso e in fondo lascerebbe nel nostro animo un senso di diminuzione e di tristezza, direi di impotenza, se non fossimo convinti che da questa azione spirituale, lontana dalla pratica attuale e, di proposito messasi in disparte, non ne sgorgasse alcun effetto, non dico nei tempi più lontani e per i nostri nipoti, ma anche per l'oggi. E aggiungo anche che sarebbe segno che il nostro pensiero non sarebbe retro pensiero, e che la nostra volontà di purezza non sarebbe pura, se non avesse altro resultato se non quello di separarci, con una barriera di ironica intelligenza e di egoistica meditazione dal tumulto e dal dolore e dall'affanno degli uomini.

    Io credo, caro Gobetti, che la nostra separazione non sia inutile e vana, e appunto quando il dubbio mi avrebbe spinto, mal volentieri, ma per dovere, a prendere parte, sempre mi sono risposto che la separazione non era senza resultato, anzi, aveva più effetto di quello che avrebbe la mia partecipazione diretta e personale al tumulto delle forze in gioco. Quel tumulto ci inghiottirebbe, senza adoprarci; fuori del tumulto, noi possiamo aiutare le forze sane e dell'avvenire. Questa è la mia convinzione.

    La nostra critica ed i nostri programmi, dato che abbiano il valore dell'intelligenza e dello studio, hanno sempre efficacia sui partiti nazionali. Non è vero che essi vallano perduti. Non abbiamo veduto, in questi ultimi anni, tanta delle idee che noi caldeggiammo, benché da noi bandite indipendentemente dagli interessi dei ceti e lungi dai partiti, penetrare a poco alla volta la coscienza della nazione; diventare, presso questo o quel partito, un'arma di lotta e una bandiera di combattimento? Naturalmente i gruppi, i partiti, i ceti ne assumevano questa o quella parte, ne illuminavano più questo che quel lato, talora le storpiavano e le diminuivano; ma sarebbe accaduto diversamente se idee e programmi e critiche da noi sostenute, avessero avuto il nostro sostegno pratico, di uomini di partito? E quale partito ci avrebbe permesso di esprimerle tutte, di sostenerle puramente e non ne avrebbe operato esso stesso, per il gioco delle forza che in esso si sarebbe esercitato al contatto di un'idea viva, di un programma determinato, di una critica esatta, quella trasformazione che il gioco di tutti i partiti e gli interessi ha provocato dentro la nazione?

    Non è vero che noi non collaboriamo alla storia viva del Paese. Ci siamo anche noi a farlo. Io non voglio, per proposito, citare esempi; e d'altra parte son certo che a tutti noi sovviene di idee generate da gruppi fuori dei partiti e adottato da partiti, che se ne sono fatti poi lo strumento pratico e realizzatore. Io dico che compiano una funzione nazionale importante, nel suo modesto ritegno e più vasta di quel che non sembri nel suo proposito di separazione.





    Dunque senza rammarico e senza dubbio continueremo a fare della storia e non della politica, intendendosi che con questo appunto faremo una politica più profonda e operante.

    Di gente che vuole agire, di gente dotata, per una tradizione passata quasi nel sangue, delle qualità che occorrono per riescire, il nostro paese ne ha abbondanza. Dove difetta, è nel resto: la coltura, la vera intelligenza (da non confondersi con la furberia), la conoscenza degli altri paesi e della vastità del mondo e dei suoi problemi, la educazione intellettuale e morale, il senso profondo e largo dell'umanità. È un paese di qualità rozze, di possibilità chiuse, di fioriture senza frutto utile, che ha bisogno soprattutto di innesti, di potature, insomma di educazione. Per uomini senza passioni di parte e capaci di guardare in faccia la realtà, l'Italia potrebbe essere davvero un grande paese, se potesse per cinquant'anni scomparire dalla carta geografica, e riempirsi di scuole di ogni genere e svilupparsi e istruirsi e educarsi, per poi fare un bel giorno la sua ricomparsa nel mondo. Ma ciò non è dato ai popoli, come non è dato agli individui, di fare; legge è vivere, ossia lottare, conquistarsi il pane, e il proprio posto, la propria coscienza. Perciò i nostri sforzi devono essere diretti a educare pur nel tumulto. I problemi della coltura e della scuola e dell'educazione in genere (la strada, la famiglia, le riviste ecc. educano quanto la scuola) devono diventare i nostri problemi. Già in parte lo sono. A questa parte crediamo di avere abbastanza collaborato. Vale più modificare lo spirito di dieci individui che una legge nuova. La nostra politica non può essere parlamentare o di partito, ma deve tendere alla aristocrazia di tutti i partiti.

    Bisogna che il nostro sforzo operi su tutti essi, in virtù di valori superiori. Se noi avremmo questi valori umani, i partiti, che non li hanno, sentiranno per forza questa influenza. Noi dobbiamo parlare in nome di qualche cosa che sia al di là di quegli interesse e di quelle idee. Io credo che senza prendere forme di un partito superiore ai partiti, dovremo giungere a qualche forma sociale, che la nostra operosità avvalori e presenti, sotto presenze tangibili, al paese stesso dove siamo nati per operare. Io non oso dire qui tutto il mio pensiero, che ancora mi si presenta incerto e pieno di rinvii al futuro, ma mi pare che oramai dopo tanti anni di prove , la nostra generazione e quella più giovane, che lavora nella stessa direzione, abbia di fronte alla politica ed al suo dovere di azione, il modo chiaro di formarsi il concetto delle proprie possibilità; le quali non sono anche senza azione politica veramente detta, anche senza partecipazione alla lotta, prive di attrazione, di fascino, di sacrificio, di bellezza, di realtà, di attività. Anzi. Insomma non dovrebbe essere il nostro un lavorare di pura intelligenza ma tenere alquanto della fede nel lavoro stesso e partirsi dalla convinzione che così si collabora a qualche opera universale.





    Forse si potrebbe stendere di ciò più minuto programma: ma i programmi son cornici, che l'attività nostra riempie spesso in modo imprevisto. È necessario farli ma non tenercisi legati. In ogni modo se questo suggerisse ad altri un quadro dell'attività presente, forse qualche pennellata mi sentirei di darci anch'io.

    Credimi, intanto, tuo aff.mo


PREZZOLINI

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    Caro Prezzolini,

    Un quadro dell'attività presente che mirasse a definire la nostra "Società degli Apoti" e ne chiarisse i limiti e l'azione sarebbe certo molto utile e io spero che tu stesso ci voglia tornare su e tracciarne un poco, mentre si fa, la storia.

    Nessuno può riescire meglio di te che sei stato da quasi vent'anni l'infaticabile direttore e amministratone dell'idealismo militante in Italia. Nella valutazione poi del significato politico che ebbe la nostra cultura negli ultimi anni siamo sostanzialmente d'accordo: nessun dubbio che il partito popolare, p. es. abbia ripreso gran parte del problemismo unitario e tutto ciò che di sano si nascondeva nel movimento modernista, che Einaudi e la Riforma sociale abbiano alimentato le tradizioni liberali meglio di una organizzazione di partito, che La Voce abbia fatto almeno tanto bene quanto il movimento socialista.

    Noi siamo più elaboratori di idee che condottieri di uomini, più alimentatori della lotta politica che realizzatori: e tuttavia già la nostra cultura, come tale, è azione, è un elemento della vita politica.

    Senonché anche in questo compito di chiarificazione ideale, io non so se il nostro criticismo operoso ci consentirà un'unità obbiettiva e un'indifferenza, per così dire scientifica di lavoro. La Rivoluzione Liberale p. es. non sarebbe oltre che un organo tecnico di cultura e di libera discussione storica, un punto fermo di ricerca o di giudizio? Ecco il punto in cui lo so che non tutti siamo concordi. Pure se ripenso agli esempi più recenti, da Marx a Sorel, mi pare che tutti gli sforzi più originali di pensiero si siano accompagnati con un'intransigente elaborazione di miti d'azione e con una tragica profezia rivoluzionaria. La forza più energica del mondo moderno, il movimento operaio, è la sola su cui si possa operare, per la conquista della nuova civiltà. Ora la pacifica dialettica ideale della Rivoluzione Liberale viene discernendo i pensieri e le esperienze, indica i valori individuali e critica i segni e i propositi. Ma attraverso questo lavoro disinteressato e politico perché apolitico non si andrà formando la nuova classe dirigente? Non ci sono tra noi i futuri dirigenti e ispiratori di quel movimento operaio che risorgerà tra 10 o 12 anni ? Questo è più un dubbio e una confessione che un programma: da otto mesi di vita la Rivoluzione Liberale risulta naturalmente quale l'hanno fatta i suoi collaboratori non soltanto quale l'aveva immaginata il direttore. La discussione, organicamente condotta, e venuta prevalendo sullo sviluppo del programma. Ne avremo frutti più vigorosi ma non sarà dannoso ricordare il punto di partenza.


p. g.